XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 17,11-19
Durante il viaggio verso Gerusalemme, Gesù attraversò la Samaria e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi i quali, fermatisi a distanza,
alzarono la voce, dicendo: «Gesù maestro, abbi pietà di noi!».
Appena li vide, Gesù disse: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono sanati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce;
e si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono?
Non si è trovato chi tornasse a render gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse:
«Alzati e và; la tua fede ti ha salvato!».
[Fonte: vangelodelgiorno.org]

Oggi ci sono offerti tanti spunti, ma facendo riferimento all’articolo di Andrej Boytsov, pubblicato il 20 settembre 2016 su Avvenire, dal titolo: “SOFFERENZA cercarla non è cristiano”, vorremmo seguire questa pista. (I testi in corsivo sono del suddetto autore)

Secondo un discorso molto chiaro di sant’Isacco il Siro, «Dio non vuole la sofferenza degli uomini» e non l’ha mai voluta; il Cristo non è venuto tra noi per farci soffrire ma piuttosto per liberarci dalle sofferenze; il Cristianesimo non è fondamentalmente la religione della sofferenza ma del benessere che Dio ha donato all’uomo creandolo e che ha in mente di donargli per l’eternità.

Solo per un disegno misterioso della sua bontà misericordiosa, Dio può visitare l’umanità anche attraverso la sofferenza: malattie, lutti, sconfitte, calamità, fanno innalzare nella Scrittura un immenso concerto di grida e di lamenti che salgono a Dio dall’umanità. La Bibbia però non ama il dolore per se stesso, attende l’era messianica come un tempo di guarigione e di liberazione, tempo di gioia e di pace nello Spirito. La sofferenza rimane un fatto che, piuttosto che essere aggirato, dev’essere assunto e affrontato meglio possibile.

La lebbra, una malattia contagiosa, secondo la mentalità giudaica, era il più indesiderabile dei mali, aveva un significato simbolico in quanto esprimeva una situazione di peccato e di lontananza da Dio. La persona che ne era contagiata veniva segregata dalla società. Così, ai margini di Israele la malattia aveva accomunato nove ebrei con un samaritano, nonostante la situazione di inimicizia che divideva i due popoli; ma quando Gesù passa in quel villaggio, il loro incontro con il Maestro ha per effetto la guarigione (Lc. 17,15).

Anche la prima lettura racconta della guarigione del lebbroso Naaman il Siro nelle acque del Giordano (2 Re 5,14), segno della benevolenza divina e della potenza profetica.

Queste guarigioni possono considerarsi la risposta dell’amore di Dio alla supplica della miseria umana: sono segni della rivelazione per aiutarci a riconoscere che Dio ha parlato spesse volte, e ancora parla, all’umanità, che pur bisognosa, resta incredula al suo amore.

Cristo è il vincitore della sofferenza.

Prendendo su di sé le nostre malattie al momento della sua Passione, Gesù, il Servo Sofferente, ha dato loro un nuovo senso. Come ogni sofferenza, esse hanno ormai un valore di Redenzione.

In Cristo la sofferenza ha ricevuto un nuovo statuto: ha perso il suo potere tirannico d’indurre al peccato e alle passioni e di poter essere utilizzata dalle potenze malvagie per condurre l’uomo al male.

Cristo si rende presente nell’umanità non tanto per togliere il dolore, le difficoltà, ma perché ogni cristiano faccia l’esperienza della “forza” di Dio che opera nel cuore dell’uomo e lo sa trasformare. Così la sofferenza può oramai essere utilizzata come un mezzo per combattere il peccato e le passioni e vincere le potenze del male […] Il cristiano non solo può evitare che questa lo porti al male ma ne fa pure un’occasione di progresso spirituale […] La sofferenza può essere per lui un’occasione […] Il buon uso della sofferenza suppone comunque quattro disposizioni principali […]: la pazienza, la speranza, la preghiera e l’amore di Dio.

Così ha fatto con il Samaritano, uno straniero libero dai legami della legge che, guarito dalla lebbra, ritorna a ringraziare Gesù, il suo liberatore.

Paolo, che ha fatto a più riprese l’esperienza della sofferenza, sa che essa unisce l’uomo a Cristo redentore, infatti: “portiamo nei nostri corpi le sofferenze di morte di Gesù affinché la vita di Gesù sia anche essa manifestata nel nostro copro” (2 Cor.4,10).

Mentre Giobbe non arriva a comprendere il senso della sua prova, il cristiano si rallegra di “completare nella sua carne ciò che manca alle prove di Cristo, per il Suo Corpo che è la Chiesa” (Col.1,24).

Nello sforzo impiegato per adottare e sviluppare queste disposizioni spirituali, il cristiano ha Cristo come modello e pedagogo.

Ecco perché la malattia, come la sofferenza e la morte, è inserita nell’ordine della salvezza. Non che essa sia facile da portare: rimane una prova, ed è carità aiutare il malato a sopportarla, visitandolo e consolandolo, cercando di portarlo a scoprire l’occasione che essa può essere. Bisogna precisare, tuttavia, che se si può trarre del profitto spirituale dalla sofferenza non la si deve in ogni caso ricercare con questo fine. Il cristianesimo non fa della sofferenza un fine della vita spirituale e neppure un mezzo obbligato per tale vita. I beni spirituali acquisiti nella sofferenza non sono ricevuti da questa, ma all’occasione di questa. Inoltre, non dipendono tanto dalla sofferenza stessa quanto dall’attitudine assunta dall’uomo nei suoi riguardi.

Il malato, nel mondo cristiano, non è più un lebbroso, un maledetto dal quale ci si scosta; è l’immagine ed il segno di Cristo Gesù.
Monache Benedettine Monastero SS. Salvatore Grandate